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Ricette e racconti La pasta di semola o di grano duro è una parte fondamentale della nostra alimentazione. Ma cosa sappiamo della pastasciutta che abbiamo nel piatto? A parte il prezzo, di che cosa ci preoccupiamo?
Pasta di semola, il prezzo giusto
Qual è il prezzo giusto della pasta di semola? Quanto siamo disposti a spendere per un pacco di pasta? Dato che ne consumiamo in quantità – si stima circa 25 chili a persona in un anno – molti fanno grande attenzione quando si tratta di comprare la pasta.
La pasta della grande distribuzione
In un negozio di alimentari o al supermercato possiamo trovare la pasta a 2 euro al chilo, quindi circa 20 centesimi a porzione. Cosa sappiamo della lavorazione e della materia prima utilizzata? Non conosciamo la provenienza del grano né la varietà o la miscela di varietà di grano. In Italia le varietà di grano duro più coltivate sono: Iride, Saragolla, Simeto, Core, Odisseo, Claudio, Achille, Levante, Tirex, Quadrato. I grani cosiddetti “antichi” come Senatore Cappelli, Verna, Timilia non rientrano tra le dieci qualità più diffuse.
Di una pasta industriale non sappiamo nemmeno in che percentuale è presente grano italiano e grano di provenienza estera. Canada, Australia e i paesi dell’Europa dell’est sono quelli da cui provengono i maggiori quantitativi di grano importato. Anche le informazioni su lavorazione ed essiccazione sono difficili da reperire.
La pasta dei pastifici artigianali
Proviamo a saltare la grande distribuzione e andiamo a comprare direttamente da un pastificio artigianale. Qui pagheremo un pacco di pasta da un chilo circa 5 euro, quindi 50 centesimi a porzione. Costa di più? Senz’altro. Ma avremo la garanzia che la pasta è stata fatta con grani locali e tutte le informazioni che vogliamo sulle varietà usate, sul tipo di lavorazione, sulle trafile e i tempi di essiccazione.
Un rapporto qualità/prezzo superiore, un legame stretto con il territorio, un minor peso ambientale e un maggiore sostegno alle economie locali. Se non vogliamo sforare il budget destinato alla spesa alimentare sarà sufficiente mangiare pasta una volta in meno, sostituendola con altri cereali come riso, orzo, farro, miglio, avena.
Produzione e consumo di pasta
Una convinzione “macroeconomica” molto comune è che in Italia non si coltivi grano sufficiente a produrre tutta la pasta che consumiamo. Saremmo, in buona sostanza, obbligati a importare grano estero per soddisfare la domanda di pasta. Quest’affermazione è falsa. O meglio: dobbiamo specificare di quale domanda stiamo parlando. Ci riferiamo al fabbisogno interno o anche alle esportazioni?
Guardiamo i numeri. Questi sono i dati del 2016:
grano duro raccolto in Italia: poco meno di 6 milioni di tonnellate;
produzione di pasta secca: 3,6 milioni di tonnellate di cui 2 milioni destinata all’esportazione e 1,6 milioni assorbita dalla domanda interna.
I numeri variano di poco a seconda delle fonti e sono tutti rielaborazioni di dati ufficiali (ISTAT e altri enti indipendenti). Nella categoria “pasta alimentare secca” è compresa: pasta secca di semola, pasta secca all’uovo e pasta secca ripiena. Esportiamo più della metà di pasta alimentare prodotta. Lo confermano le serie storiche a partire dal 2012 e tutti gli articoli sull’argomento: non abbiamo abbastanza grano italiano per soddisfare la domanda interna e le esportazioni, destinatarie del 60% della pasta prodotta in Italia.
Tolte le esportazioni, abbiamo grano a sufficienza per produrre tutta la pasta che mangiamo. Ciò non vuol dire che bisogna smettere di fornirsi di grano estero per riuscire a soddisfare la domanda degli altri paesi. Si tratta ovviamente di un settore strategico, che impiega risorse e dipendenti anche italiani. Ciò non toglie che il consumatore deve essere correttamente informato. Per poi scegliere di conseguenza.
Alcuni articoli sull’argomento: Export di pasta in crescita da 9 anni, Pasta, un’industria al collasso: “Il rischio è la polverizzazione”.
Grani locali e percentuale di proteine
Un altro giro di ricerche su internet farà emergere una seconda obiezione a una nuova “autarchia” del grano, questa volta meno economica e più alla masterchef: non tutto il grano italiano avrebbe una qualità tale da garantire la produzione di una buona pasta. La famosa percentuale di proteine. E qui basterebbe fare un bell’esperimento casalingo, comprando pacchi di pasta con percentuali di proteine sempre maggiori e assaggiare alla cieca per testare la nostra capacità di distinguere pasta con una differenza di uno, due o tre punti percentuali di proteine. Dal 12% dei grani italiani fino al 15% di alcune varietà straniere. L’industria è libera di sostenere quel che vuole e va da sé che esistono paste industriali più o meno buone, frutto di miscele di grani locali e stranieri, a prescindere dalle proteine. Così come è ovvio che esiste una scala di qualità anche per la pasta artigianale ottenuta solo da grani italiani. Resta fermo, però, il diritto di poter scegliere, se voglio risparmiare, tra pasta “scarsa” prodotta con grani italiani e pasta “scarsa” contenente grani anche esteri. E la percentuale di proteine non ci pare l’unico criterio valido a sentenziare la bontà di una pasta.
Grani esteri e storici improvvisati
Novelli storici in diatribe pubbliche sui social sostengono che l’Italia ha sempre importato grano, anche in tempi remoti, per ragioni logistiche: era più conveniente il trasporto via nave di quello terrestre. Ma può essere quello economico il solo criterio su cui basare le nostre scelte alimentari? Sia a livello industriale che individuale?
Forse bisognerebbe provare ad avere una visione generale del problema, formandosi un’opinione basata non solo su statistiche e dibattiti virtuali ma privilegiando il confronto diretto con tutti gli operatori coinvolti nella “fabbrica di maccheroni”.
Ormai non ci si abbevera più alle fonti della conoscenza. Posso informarmi da un agricoltore, da un pastaio, da un mugnaio, da un cuoco, insomma da qualcuno che fa della pasta un mestiere, una consuetudine quotidiana. Parlandoci faccia a faccia e andando a vedere come lavora. È che siamo pigri o, forse, non ce ne importa abbastanza.
Ma pur volendosi fermare alla superficie delle cose, il dibattito sull’attuale modello di produzione e distribuzione del cibo è più vivo che mai. E la certezza che l’economia di scala vada bene anche per il sistema agroalimentare comincia a vacillare. D’altra parte come può essere efficace lo stesso metodo sia che si producano automobili sia che si coltivi grano? Ed è inevitabile interrogarsi sul modello di consumo del cibo prodotto industrialmente. Agricoltura, allevamento, pesca e modi e tempi e tecniche di trasformazione delle materie prime stanno mostrando sempre più la corda.
Non lo sostengono fricchettoni fruttariani ma qualsiasi economista con un po’ di sale in zucca. Oggi la convenienza economica, l’ultimo baluardo cui si appiglia l’attuale sistema per non cambiare, si sconta in altri settori.
Prendiamo il caso della pasta. Se compriamo grano estero che per varie ragioni costa meno, mettiamo in difficoltà le coltivazioni locali e non incentiviamo quel ritorno alla terra tanto auspicato e necessario. Acquistando una pasta industriale diamo soldi alle grandi società e non sostegno alle economie locali. Non insistiamo sui danni all’ambiente causati dalla grande distribuzione.
Insomma, a volte, il prezzo più basso non è il più conveniente. E dobbiamo avere il coraggio di praticare scelte impopolari, anche per il nostro portafogli, se questo è necessario per fare bene e stare bene.
